Questa descrizione, tratta dal sito del Mudec, mi aveva decisamente ingolosita. Tessuti, sete, kimoni… Una buona esca, per pescare il mio interesse.
Così, complice uno sciopero dei treni e la necessità di accompagnare mio figlio all’università, abbiamo unito utile e dilettevole e abbiamo approfittato per fare una visita al Mudec – Museo delle culture.
Il posto, ex officine Ansaldo, non è facilissimo da raggiungere a piedi, a causa anche della imprevista chiusura per lavori della passerella pedonale alla stazione di Porta Genova. La struttura, però, è decisamente bella e offre, oltre alle sale delle collezioni permanenti, spazi per esposizioni temporanee, sale conferenze, design store e bistrot.
L’ingresso alle collezioni permanenti, fino alla fine di agosto 2017, è gratuito.
Il percorso tra le varie sale segue un percorso logico e temporale che è ben spiegato dai pannelli sulle pareti, e ci sono vari pezzi particolarmente interessanti. Peccato che la selezione sia piuttosto ridotta, e che alcuni pezzi siano appesi troppo in alto (anche per me, che non sono piccina) per essere chiaramente visibili.
Nella prima sala mi ha colpito questo pezzo di tela, tessuto in fibra di rafia, originario del Centro Africa e risalente al XVII secolo, perché mi ha ricordato in qualche maniera la tessitura sarda.
Nella seconda sala, invece, mi ha incuriosita la “tapa”, proveniente dalla Papua Nuova Guinea e antecedente al 1850. La tapa è una stoffa non tessuta ricavata dalla corteccia di alcuni tipi di piante (per quella esposta, dell’albero del pane), utilizzata per confezionare abiti, perizomi, coperte, tappeti, tende, ecc. La corteccia viene raschiata con una conchiglia, una pietra o un coltello, e le strisce fibrose così ottenute lasciate macerare nell’acqua e successivamente battute con una mazza di legno. Questo permetteva di ottenere bande sottili e contemporaneamente di assemblarle con amido vegetale per ottenere la dimensione desiderata. La stoffa viene quindi decorata con pigmenti naturali.
La maggiore aspettativa, comunque, era per le sale 4 e 5, che sono dedicate ai viaggi e alle attività commerciali con il Giappone nell’Ottocento.
Aspettativa che è andata in parte delusa, perché è vero che gli oggetti giapponesi sono in numero maggiore rispetto a quelli delle altre culture, ma non ci sono tutti quei kimono che la descrizione sembrava suggerire, anzi. C’è un costume del teatro nō, ricamato, e alcuni campioni tessili, interessanti per i motivi decorativi.
All’inizio della sala, una lussuosa portantina femminile, del periodo Edo (1603-1868). Riservata esclusivamente alle donne dell’aristocrazia, soprattutto per muoversi all’interno delle città.
I decori sono magnifici!
E finalmente eccolo qui, l’unico ricamo della collezione: è un costume del teatro nō, circa 1870, in foglia d’oro su raso di seta e ricamo.
Tra gli altri oggetti, mi è piaciuto molto questo set per la scrittura, sempre del periodo Edo, in legno laccato con doratura.
Quant’è bello il decoro con le foglie d’acero sul coperchio?
Anche questo campione di tessuto è molto bello: il periodo è circa il 1870. Il tessuto operato è in seta con trame supplementari in oro cartaceo. Le trame supplementare in oro e argento erano prodotte stendendo su fogli di carta di gelso uno strato di lacca su cui applicare l’oro o l’argento in foglia. Questi fogli dorati erano tagliati a striscioline, la cui larghezza variava in base al tipo di tessitura.
Mi piace molto il dettaglio del disegno, in cui le foglie sono disegnate in modo realistico, tutte smangiucchiate. L’imperfezione della natura accettata e resa perfetta dalla preziosità del materiale e del lavoro impiegato per fare il tessuto.
Interessante il filmato in cui si racconta lo sforzo per salvare le collezioni durante la seconda guerra mondiale, e i danni provocati dall’incendio al Castello Sforzesco, che ha distrutto buona parte delle collezioni.
Alla fine della visita, che non richiede molto tempo, rimane comunque il rimpianto di non aver trovato una collezione permanente più ricca.